di Giulia Beatrice Filpi
“Quando la nave arrivò fu uno spettacolo per tutti. Si affacciarono anche i bambini, e videro questa nave che “scaricò” [i deportati dalla Libia] come merce sulla spiaggia, poi si allontanò per buttare i cadaveri che c’erano dentro”. Nella sede del Centro studi e documentazione di Ustica, Vito Ailara, 88 anni, riporta così un racconto di sua zia, Angela, classe 1900, a una platea di studenti del Liceo locale. Una pagina dimenticata della storia italiana si tramanda e vede nuova luce in questi giorni: quella del piroscafo Rumania, su cui vennero deportate centinaia di libici, nel 1911, in seguito alla sconfitta dell’esercito regio a Sharaa al-Shatt. Alcuni di loro morirono durante il trasferimento, a cui si aggiunsero almeno altri 127 decessi dovuti all’epidemia di colera che colpì il gruppo e alle dure condizioni di vita sull’isola.
Si calcola che le persone trasferite a Ustica, resistenti anticoloniali, ma anche civili presi a caso durante i rastrellamenti che seguirono alla disfatta, furono 920. Pochi di più erano gli abitanti prima dello sbarco, a cui si aggiungevano altri “coatti”, briganti o criminali comuni confinati precedentemente. Quello della nave Rumania è solo il primo episodio di una più lunga e complessa storia di deportazione, esilio e confino che proseguì, anche durante il fascismo, fino al 1934. E ai libici si aggiunsero oppositori di primo piano come Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga e molti altri.
Per quanto riguarda i libici, in totale, gli storici calcolano che circa 3000 persone, forse 4000 per alcune fonti, furono deportate durante il periodo tra 1911 e 1934, sulle isole di Ponza, Favignana, Ustica e Tremiti.
A Ustica, l’epidemia di colera che colpì i deportati fu un forte motivo di preoccupazione per l’isola e fece sì che i deportati fossero ulteriormente allontanati dalla comunità. Tuttavia, le testimonianze storiche, raccolte con impegno da diversi studiosi siciliani, tra cui lo stesso Ailara, attraverso archivi e fonti orali, riportano anche di gesti di solidarietà e umanità da parte dei locali nei confronti dei nuovi arrivati.
Come quelli del direttore della “colonia coatti” di Ustica, Antonino Cutrera, delegato del Prefetto, che sui documenti si distingue per aver cercato di alleviare le sofferenze dei libici, per esempio, chiedendo che fossero loro a preparare e distribuire il proprio cibo, evitando frodi a loro danno.

Casi di solidarietà umana dei singoli non cancellano, però, la realtà del passato coloniale, come ricorda Giulietta Savitri Mondini, oggi abitante di Ustica, che ha trascorso l’infanzia a Tripoli fino al 1970. Qui, la sua famiglia era emigrata dall’Italia, racconta, per povertà. Non ha vissuto direttamente durante il colonialismo, ma ne ricorda bene gli strascichi nella società libica degli anni sessanta: “Non eravamo noi a parlare arabo, ma gli arabi, che parlavano italiano. Questa cosa… fa capire cos’è la colonizzazione. Quando un popolo non può neanche usare la sua lingua, o comunque deve impararne obbligatoriamente un’altra, c’è qualcosa che non va” sottolinea.
La memoria del colonialismo italiano in Libia è viva, a Ustica, grazie all’impegno di tutta la comunità locale, comprese la scuola e le altre istituzioni.
Nel fine settimana, su invito delle associazioni Arci e Un Ponte Per, al ricordo si è unita anche una delegazione della società civile, con attivisti e giornalisti provenienti da diverse parti d’Italia, che hanno piantato un ulivo commemorativo nel Cimitero e inaugurato una targa con i versi di due dissidenti deportati sulle isole durante il periodo coloniale italiano: l’italiano antifascista Silvio Campanile e il libico Fadil Shimani. “La loro nave ha urlato, mi sta avvertendo,// vuole portarci via dalla terra dei nostri padri” scrive quest’ultimo, da Favignana, nel 1912: “Ci spinsero su un vascello di ferro// il treno, lo chiamavano, costruito da un cristiano”. “Continuava a portarmi sempre più lontano// dai miei cari – prosegue la poesia – ma avrò pazienza, so resistere”.