Anacardio, retrogusto amaro

di claudia

di Marco Trovato

La Costa d’Avorio è leader africano nella produzione di anacardio, e seconda a livello mondiale. Ma i contadini guadagnano una miseria e gran parte dei raccolti viene esportata in forma grezza, non lavorata. A guadagnarci sono le multinazionali che controllano la trasformazione e la commercializzazione degli snack.

All’ora dell’aperitivo i rampolli della Costa d’Avorio sgranocchiano noci dorate come la loro vita che conducono tra i locali alla moda del Plateau. Ma a pochi chilometri di distanza dal quartiere finanziario di Abidjan, gli anacardi hanno un retrogusto amaro. «Pensavamo fossero la nostra speranza, si sono rivelati un’autentica maledizione», dice Mahamadou Diarra, 40 anni, mentre indica i cancelli chiusi della fabbrica di Grand-Bassam in cui lavorava fino a poche settimane fa. «Ai primi di marzo ci hanno comunicato che la produzione sarebbe stata interrotta, e così è stato». Sono rimasti a casa duemila operai. E pensare che lo stabilimento era stato inaugurato solo tre anni fa, con capitali marocchini, e vantava macchinari moderni, all’avanguardia, in grado di processare fino a 17.000 tonnellate di frutti. «Ma non abbiamo mai raggiunto quelle quantità», racconta Mahamadou. «Si capiva che le cose non giravano per il verso giusto: i magazzini erano pieni a metà. Ma non ci aspettavamo che finisse così».
È la nona fabbrica di anacardi che chiude in Costa d’Avorio nell’arco degli ultimi tre anni. Cinquanta miliardi andati in fumo. Colpa della concorrenza asiatica. India e Vietnam hanno il monopolio della lavorazione: vantano una lunga tradizione nel settore e un minor costo del lavoro (soprattutto femminile). Contendere il loro primato si è rivelata un’operazione impossibile.

Concorrenza spietata

Una doccia fredda per il governo di Yamoussoukro, che negli ultimi dieci anni ha fortemente incentivato l’arrivo di investimenti stranieri per la realizzazione di nuovi impianti produttivi. Non solo nella regione di Grand-Bassam ma anche in quelle di Odienne, Bouaké, Anyama, San Pedro… La strategia ivoriana era chiara: trasformare i frutti immangiabili dell’anacardio nei gustosi snack richiestissimi dal mercato mondiale. Il fallimento della scommessa sta nei numeri, impietosi: benché la Costa d’Avorio sia diventato il primo produttore africano di anacardio (il secondo al mondo, dopo il Vietnam) e abbia triplicato in 12 anni i suoi raccolti (passando dalle 400.000 tonnellate del 2011 al milione e 200.000 dello scorso anno), a oggi, meno del 20% delle noci coltivate viene processato nel territorio nazionale (nel 2011 era l’8%). «Il governo ivoriano ha fatto molto per creare un’industria nazionale della lavorazione degli anacardi, ma tanti sforzi sono ancora insufficienti a fronte dei nostri concorrenti asiatici che hanno costi di produzione molto più bassi di noi», conferma Lucman Diaby, presidente del “Groupement des transformateurs du cajou ivoirien” (Gtci) che raggruppa circa 15 aziende con una capacità produttiva stimata di 250.000 tonnellate.

«Purtroppo molte fabbriche chiudono perché non possiamo continuare a lavorare in perdita. Nonostante gli aiuti dello Stato (pari a 80 franchi Cfa, 12 centesimi di euro, per chilo di nocciole trasformate sul posto), il nostro modello produttivo non è competitivo rispetto alle multinazionali che controllano il settore della trasformazione».
I costi sono solo una parte del problema. Un gran numero di stabilimenti locali è stato costretto a dichiarare bancarotta per difficoltà di approvvigionamento della materia prima. «Paradossalmente, malgrado la diffusione di ampie piantagioni di anacardio, gran parte dei coltivatori ivoriani ha trovato da vendere le proprie noci grezze agli esportatori stranieri, players molto potenti che usano la loro enorme disponibilità finanziaria per conservare e difendere il loro monopolio». Il governo ivoriano non ha avuto la forza o la determinazione per imporre le sue condizioni alle multinazionali. Risultato: gran parte del raccolto viene esportato in Asia, dove avviene la lavorazione, che fa aumentare enormemente il valore della merce. Per intenderci, lo scorso anno i contadini ivoriani hanno guadagnato mediamente 0,70 euro per chilo di anacardio, mentre il prodotto finito era venduto a 17 euro al chilo.

Un lungo procedimento

L’enorme divario di prezzo si spiega con il fatto che, mentre l’albero di anacardio (originario dell’Amazzonia) non richiede particolari cure, il processo di lavorazione del cajou – come viene chiamato il frutto in Costa d’Avorio – è estremamente laborioso, necessita di una speciale tecnologia e di molta manodopera qualificata. Gli anacardi vengono prima cotti con il vapore poi essiccati in un impianto ad aria forzata, quindi sgusciati e tostati, e spellati uno ad uno, e infine selezionati in base alla qualità. Solo il 10% del raccolto iniziale arriva ad essere commercializzato come sfizioso stuzzichino – altro motivo che fa crescere il prezzo finale –, poiché ciò che viene consumato in realtà è il seme dell’anacardio: una piccola noce a forma di rene che cresce alla base di un falso frutto, una sorta di mela, le cui sembianze ricordano quelle di un cuore (da qui l’origine del nome anacardium, dal greco kardía, “cuore”). Mentre questa mela carnosa è commestibile – la sua polpa succulenta e zuccherina viene usata per produrre succhi tropicali –, la noce non lavorata ha caratteristiche che la rendono infida e potenzialmente nociva per la salute dell’uomo. Il personale addetto alla trasformazione deve attenersi ad accurate cautele, in quanto il guscio dell’anacardio contiene un olio tossico ed è ricco di un acido che irrita la pelle: può causare vesciche, bruciature, eruzioni cutanee. Insomma, trasformare gli anacardi in noci gustose è una procedura complicata. Ma è proprio la trasformazione che rende questo prodotto redditizio.

Peccato che i raccolti ivoriani – e in generale quelli dei Paesi africani in cui l’anacardio viene coltivato – vengano venduti grezzi. La commercializzazione del prodotto finale è storicamente controllata da imprese olandesi che gestiscono la spedizione via mare e la distribuzione nei mercati globali. Ai contadini rimangono le briciole. Mastica amaro Mahamadou, ex operaio rimasto senza fabbrica, che ora dovrà tornare a lavorare la terra o forse si vedrà costretto a emigrare. «Vedo ogni giorno partire navi cariche di prodotti della nostra terra», dice osservando l’oceano. «Dai porti della Costa d’Avorio prendono il largo container pieni di anacardi. Ma anche di cacao, manghi, noci di cola. E quel tesoro saccheggiato dalle multinazionali creerà altrove ricchezza e posti di lavoro. È una lunga storia di sfruttamento e di ingiustizia. Chissà quando cambierà».

Questo articolo è uscito sul numero di 1/2025 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.

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