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Edizione del 12/06/2025

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Rivista Africa
La rivista del continente vero
Autore

Stefania Ragusa

Stefania Ragusa

    MIGRAZIONI e DIASPORE

    Lotta alle mutilazioni genitali. A che punto siamo?

    di Stefania Ragusa 4 Febbraio 2020
    Scritto da Stefania Ragusa

    L’acronimo MGF viene usato normalmente per indicare le mutilazioni genitali femminili, ossia quell’insieme di interventi trasformativi e non terapeutici orientati alla costruzione sociale del corpo femminile e presenti ancora in molte culture. In Italia secondo i dati Istat (2015) le donne  con questo problema sarebbero il 6,1% del totale delle straniere regolarmente residenti. Di queste il 35,5% sono nigeriane, il 32,5%  egiziane, il 5,5% etiopi, il 4,9% eritree, il 4% somale e il resto viene da Gambia, Sudan, Guinea, Senegal, Mali. Non sono conteggiate quelle che hanno acquisito la cittadinanza italiana e le cosiddette irregolari.
    Secondo vari medici e antropologi sarebbe più opportuno usare il termine “modificazioni” invece che  “mutilazioni”. Ovviamente non con l’idea di sdoganare queste pratiche ma di restituirle al loro orizzonte di senso, proprio per poterle affrontare ed eradicare con più efficacia. Per quanto infatti possa essere difficile, andrebbe tenuto presente che i vari tipi escissione e infibulazione (ma anche gli allungamenti e altre manipolazioni dei genitali) non hanno lo scopo di rimuovere la femminilità ma di perfezionarla. Di questo e di molto altro si parlerà il 6 febbraio (giornata internazionalmente dedicata alla lotta alle MGF) a Firenze, nel corso di un convegno promosso dall’Unione dei Medici Africani, dall’Unione Comunità Africane in Italia e da Nosotras Onlus.

    Omar Abdulcadir, direttore del Centro di Riferimento Regionale per la Prevenzione e la Cura di Complicanze MGF all’ospedale Careggi, ginecologo di origine somala che da molti anni si occupa di queste problematiche, è uno degli organizzatori e, con il dottor Giuseppe Mascambruno, si occuperà della moderazione degli interventi. Nel 2004 Abdulcadir  aveva proposto un rito alternativo (ribattezzato dalla stampa infibulazione soft), innocuo ma simbolicamente rilevante, che avrebbe potuto portare a una drastica riduzione sia degli interventi clandestini fatti in Italia, sia dei viaggi “al paese”. Gli abbiamo posto alcune domande.

    Tra convegni, articoli e proposte di legge, in passato si è parlato parecchio di MGF. Oggi il tema sembra sparito dall’agenda politica. Sono diminuiti i casi? Cosa succede?
    «Succede che ci sono meno fondi a disposizione e che la tematica ha perso dunque l’appeal di qualche anno fa. Continuano a occuparsene quelli che lo avrebbero fatto comunque e lo facevano anche prima. I casi non sono diminuiti. Anzi, anche se non disponiamo di dati aggiornati, è evidente che ce ne sono molti di più.  Il problema continua a esistere ed è probabilmente ancora più intricato».
    Perché?
    «Le donne con cui abbiamo lavorato all’inizio avevano dentità forti. Erano legate alle proprie origini e fiere della cultura di provenienza. Si rivolgevano a noi per motivi sanitari e potevano contare, tra l’altro, su un sistema di accoglienza e supporto che tutto sommato funzionava bene. Due generazioni dopo la situazione è completamente diversa. Per quanto riguarda le richiedenti asilo, abbiamo un sistema di accoglienza molto carente, che non è in condizioni di farsi carico di questo aspetto. Mentre le ragazze più giovani, che sono magari cresciute qua, sono schiacciate tra nuovi modelli che non appartengono loro del tutto e tradizioni che non capiscono. E d’altra parte non ci sono medici e specialisti preparati per trattare il problema».
    Non ci sono ginecologi?
    «Ci sono ginecologi e ci sono chirurghi. Ma la questione MFG non può essere ridotta a un problema  ginecologico o chirurgico, tanto meno penale. Se l’obiettivo è aiutare le donne, per affrontarlo, oltre alla preparazione tecnica, ci vogliono specifiche competenze di antropologia e psicologia. E’ importante capire le dinamiche. E’ importante non mettere le donne in conflitto con se stesse e evitare il più possibile fratture famigliari».
    Ma dal punto di vista strettamente medico, è cambiato qualcosa rispetto al passato?
    «Si sta sviluppando la chirurgia ricostruttiva. In Italia le richieste sono ancora poche. In Francia e in Svizzera sono molto più numerose. Un problema che i chirurghi continuano ad avere è legato al monitoraggio del dopo. Sarebbe necessario sapere cosa succede alle donne che si sono operate, come stanno e come è cambaita la loro vita. Ma è molto raro che qualcuna ritorni a riferire».
    Le MGF sono numerose e varie. Gli operatori possono disporre di uno strumento che faciliti la loro identificazione?
    «Esiste un atlante di riferimento diagnostico e didattico, realizzato con l’OMS e grazie alla collaborazione di alcune università, che raccoglie e documenta le diverse tipologie. E’ stato recentemente tradotto anche in italiano ed è a disposizione di medici, studenti, antropologi e di chiunque sia interessato. Il 6 febbraio parleremo anche di questo. Vorremmo che si sapesse dell’esistenza di questo testo».

    Tra gli interventi previsti, anche uno sulla gestione delle richiedenti protezione internazionale affette da MGF e il racconto di Aldo Morrone sulla sua esperienza in Etiopia.

    (Stefania Ragusa)

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    4 Febbraio 2020 0 commentI
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