Territorio e urbanizzazione a cura di Federico Monica
di Federico Monica
L’istruzione è un’arma di cambiamento, come diceva Mandela, e in Africa rappresenta una battaglia quotidiana. Accanto a scuole d’eccellenza, esistono istituti di frontiera nei campi profughi, negli slum e nei villaggi remoti, dove l’accesso allo studio è una sfida e l’educazione un atto di resistenza.
«Education is the most powerful weapon which you can use to change the world». L’istruzione è l’arma più potente che può essere usata per cambiare il mondo. Mi capita spesso di ripensare a questa frase di Nelson Mandela, una delle più note e illuminanti che ci abbia lasciato il leader sudafricano. Sono parole che mi risuonano nella mente ogni volta che il mio sguardo incrocia uno di quei luoghi fisici in cui questa «arma» così invincibile viene messa a punto ogni giorno.
Nelle mie esperienze africane ho avuto modo di incrociare centinaia di scuole. Alcune ho avuto il piacere di vederle crescere mattone dopo mattone, altre di vederle affollate all’inverosimile di bambini in uniformi colorate o di scoprirle silenziose e quasi spettrali al calare della sera.
Molte delle strutture scolastiche che si incontrano, specialmente nelle aree rurali, sono state costruite sulla base di progetti standard elaborati dai ministeri o da agenzie internazionali, e con il loro aspetto un po’ anonimo e quasi da caserma, alleggerito appena dai colori più o meno sgargianti delle pareti, finiscono per diventare elementi ricorrenti del paesaggio. Estremamente ricorrenti: se infatti le statistiche descrivono l’Africa subsahariana come la regione al mondo con i livelli più bassi di alfabetizzazione – intorno al 70% –, è anche vero che in molti Paesi oltre un terzo della popolazione è in età scolare, un numero elevatissimo. In Italia, per esempio, bambini e ragazzi in età scolare superano di poco gli otto milioni di individui, meno del 15% del totale degli italiani; in Kenya, che conta un numero di abitanti paragonabile al nostro, scolari e studenti sono più del doppio: oltre 18 milioni. Basta questo dato a far indovinare gli enormi sforzi economici e organizzativi che molti governi devono intraprendere per realizzare sempre nuove strutture, assumere e formare docenti, e investire in un’istruzione di qualità.
Oggi, specialmente nelle capitali ma non solo, sono molte le scuole di eccellenza in cui si disegna il futuro non solo del continente ma dell’intero pianeta: università o istituti secondari che formano le nuove classi dirigenti o figure professionali e di ricerca all’avanguardia legate alle tecnologie innovative.
Al loro fianco, però, ci sono altre realtà, quelle che amo chiamare le scuole di frontiera, dove l’educazione è davvero una battaglia in prima linea per cambiare il mondo dal basso. Sono scuole di lamiere riciclate e arrugginite ricavate nei pochi metri quadrati rimasti liberi nel dedalo di vicoli di uno slum, in cui il pavimento perfettamente pulito stride con i cumuli di rifiuti e le pozzanghere circostanti, e i minuscoli banchi di legno consunti sono l’unica via d’uscita possibile al degrado.
Sono scuole improvvisate sotto teli di nylon bianchi e azzurri, nelle sterminate tendopoli dei campi profughi, dove si tenta di recuperare e ricucire una normalità spezzata. Sono, soprattutto, migliaia di scuole di villaggio, sperdute nella savana, la cui campanella è un cerchione d’auto appeso a un ramo, le cui panche sono tronchi poggiati a terra e le pareti scheletri di pali coperti di paglia. File di bambine e bambini le affollano ogni mattina, alcuni arrivati da lontano macinando chilometri con il quaderno e una penna fra le mani o in equilibrio sulla testa.
È sotto questi tetti di paglia, in queste aule sempre troppo strette e troppo buie, che l’istruzione diventa una forma di resistenza quasi eroica. Ogni volta mi trovo ad ammirarle commosso e mi piace pensare che lo spirito di Mandela non si aggiri per i corridoi dei governi e i sontuosi palazzi istituzionali, ma sia proprio qui: nell’angolo buio di una minuscola scuola sperduta fra la terra rossa, a osservare sorridente il mondo che cambia, una sillaba per volta, una pagina di quaderno dopo l’altra.