di Valentina Geraci
Uno scatto sul tema delle famiglie transnazionali tra mobilità, rimesse e vincoli affettivi. L’articolo ricostruisce vissuti, dati e dinamiche di chi vive diviso tra due continenti. Una riflessione sui confini, sulla responsabilità e su cosa, per molte persone, significa oggi “essere famiglia”.
Spesso la sera, spesso prima di cena, O. prova a chiamare Ami, sua madre. Lei in Gambia, lui in Italia. La connessione è incerta, le parole si rincorrono tra il fuso orario e la voglia di raccontarsi. O. le dice com’è andata la giornata, alle volte anche quando è andata male, anche se non può guardarla negli occhi. Come farei io, a pochi chilometri da mia madre, davanti a un caffè.
Perché, forse, al di là delle distanze, degli orari e delle abitudini, certi legami seguono a prescindere alcune dinamiche: tra madre e figlio, tra padre e figlio, tra compagni, amici, parenti. Oggi sempre più spesso questi legami si intrecciano all’interno di famiglie transnazionali, con membri sparsi tra continenti diversi, costretti a fare i conti con dei vincoli normativi rigidi o con ostacoli burocratici che rendono complicato anche solo rivedersi o abbracciarsi. Come la storia di L., che da tempo attende il rinnovo del suo permesso di soggiorno per poter riabbracciare il fratello che, come lui, vive in un Paese europeo. “Con un permesso in rinnovo non puoi viaggiare dentro l’area Schengen. Allora aspetti, rimandi. E intanto la distanza si fa abitudine”. E allora quella rete cambia forma, almeno nella sua fisicità, trovando spazio in un equilibrio precario tra presenza fisica e presenza emotiva.
Nel corso di questo lavoro ho incontrato molte persone originarie del Senegal e del Gambia. Parlare di famiglia, per loro, significa nominare una struttura molto più ampia rispetto a quella a cui siamo abituati in Italia. Non si limita a genitori, fratelli, coniuge e figli. Include zii, cugini, nonni, membri acquisiti. “Abbiamo un flusso di relazione molto forte con tanti parenti in Senegal. Le videochiamate, i gruppi WhatsApp, Telegram, Instagram… sono il nostro modo di vivere in due luoghi. Io per esempio nel tragitto da casa al lavoro faccio spesso una telefonata. Cerco un momento in cui è possibile e ci si incastra per sentirli.”dice P..

E in questa rete di legami, i ruoli si riformulano. In Italia sono spesso i genitori a prendersi cura dei propri figli fino a una certa età. In Senegal, come in Gambia, spesso e al contrario, sono i figli – e in particolare i primogeniti – ad assumersi il compito di mantenere e supportare i genitori. È un’inversione che si accompagna a un senso di responsabilità precoce. “Se una persona lascia il paese d’origine e viene qui” mi dice L., “si porta addosso una distanza lunga, mentale e fisica. Se sei un figlio, senti che è tuo compito occuparti della famiglia. Anche se non ti chiedono nulla, tu lo fai.” Del tema della doppia responsabilità, proprio per Africa Rivista, ne avevo scritto qui.
Tante altre volte, alla volontà del singolo, si aggiungono vere e proprie strategie migratorie collettive. Come spiegano alcuni studi sociologici o altri articoli, tra cui uno recente pubblicato da La Maison des Reporters, “le rimesse e la promozione sociale ed economica di cui la famiglia rimasta beneficia diventano una ricompensa che compensa la mancanza di una presenza fisica costante in casa.” La famiglia investe su un membro, spesso il figlio maggiore, affinché possa partire e sostenere tutti gli altri. “Un migrante di successo è una famiglia di successo”si legge in una delle testimonianze.
Al netto dei singoli casi e tenendo conto del rischio di creare forme di dipendenza passiva, la pressione su tante persone lontane dal loro Paese di origine però è reale. “Sacrifichi te stesso per colmare i desideri della tua famiglia. Io sono arrivato in Italia a 18 anni, ho studiato, mi sono laureato. A 25 ho iniziato a lavorare. Ma intanto mi dicevano di sposarmi, mi pressavano. Alla fine l’ho fatto, anche se non ero pronto. Ora aiuto la mia famiglia in Senegal e mantengo la nuova famiglia qui. È faticoso, ma ce l’ho fatta.” mi confida M..
Secondo dati recenti, le rimesse inviate in Senegal e in Gambia provengono da coniugi o figli residenti in Europa e raggiungono livelli molto alti. Riportando i dati emersi con il Rapporto della Banca d’Italia del 2023, le rimesse dei senegalesi hanno raggiunto una cifra pari a circa il 12% del PIL del Paese. Ma inviare soldi non è sempre una libera decisione. È un gesto atteso, collettivamente richiesto. È il desiderio di non ferire, di rispettare certe dinamiche: “Se non li aiuti, ti dicono che non sei un vero familiare. Ti giudicano. In Senegal non tutti lavorano, non esiste un sistema pensionistico pubblico diffuso. I figli sono considerati un investimento per il futuro. E chi è partito si ritrova intrappolato tra due vite: quella da costruire qui e quella da sostenere a distanza. Hai i tuoi progetti: un mutuo, una compagna, una scelta personale. Ma poi c’è la pressione di casa. E tutto si blocca.” continua M..
Studiosi, ricercatori e antropologi impegnati da anni nell’analisi dei fenomeni migratori ci aiutano a interpretare con maggiore consapevolezza le dinamiche che attraversano tanti cittadini. Per molti senegalesi in Italia, la mobilità transnazionale non rappresenta soltanto spostamenti geografici, ma una condizione di vita che implica un impegno continuo in transazioni economiche (e non solo) a lunga distanza, mantenendo legami costanti con i familiari in patria e compiendo viaggi regolari verso il Senegal.

Ma se in alcune casi si innescano dei sistemi di compensazione, legati alle visite periodiche, alle chiamate quotidiane e alle rimesse, Courrier International, in una serie di articoli sulla condizione delle donne senegalesi, ha raccolto le testimonianze di tante altre mogli rimaste sole per anni. I benefici economici derivanti dalle rimesse sono minimi rispetto al senso di abbandono che raccontano. “Ci sentiamo lasciate, dimenticate, anche se sappiamo perché lo fanno.”
Nel contesto femminile il ricongiungimento familiare non è sempre una scelta immediata né automatica. Molte madri e padri sembra preferiscano crescere i figli in Senegal, dove ritengono che il sistema educativo sia più coerente con i valori culturali e sociali della propria comunità. Questo modello educativo consente ai più giovani di sviluppare un’identità culturale solida, ma può al tempo stesso accentuare le distanze tra le generazioni.
Intanto, in questo complesso scenario, le nuove generazioni crescono in mezzo a due mondi. E non solo scrivendo di Senegal e/o di Gambia. Tra una lingua e l’altra, tra un passato trasmesso e un presente da negoziare. Anche Marisol, giovane italo-tunisina, riflette oggi sul desiderio della madre di tornare a vivere in Tunisia. “Io pensavo che fossero i genitori ad avere paura della partenza dei figli. Ma ora che lei vuole tornare là, ho paura io. Mi spaventa restare qui da sola.” Pochi giorni dopo, da Tunisi, mi manda una foto: un tavolo pieno di parenti, piatti condivisi, risate. “Non mi ricordavo fosse così bello avere tutta la famiglia intorno.”
Perché il ritorno, come la partenza, temporaneo o no, è un altro tipo di viaggio. La vera domanda, allora, non è più “dove si vive”, ma “come si tiene unita una famiglia che vive sparsa nel mondo”. Chi si prende cura di chi? Chi definisce cosa significhi essere una famiglia? E cosa resta, quando ci si ritrova sospesi tra due mondi, legati da connessioni digitali, aspettative collettive o rimodulate da contesti con legami che non si possono misurare se non in chilometri?