La Petite Dernière: Il desiderio e la fede

di claudia

di Annamaria Gallone

Presentato in competizione ufficiale a Cannes, La petite dernière è il terzo lungometraggio da regista di Hafsia Herzi, tratto dal romanzo autobiografico di Fatima Daas. Il film racconta il percorso di formazione di Fatima, diciassettenne musulmana e lesbica cresciuta nella banlieue parigina, sospesa tra fede, desiderio e ricerca di sé.

C’è una lunga inquadratura in LA PETITE DERNIÈRE in cui Fatima, 17 anni, velata, trattiene le lacrime davanti alla madre. È lì, in quella terra di mezzo tra l’infanzia e l’età adulta, tra la fede e il desiderio, che Hafsia Herzi ambienta il suo terzo lungometraggio da regista, tratto dal romanzo autobiografico di Fatima Daas, presentato in competizione alla 78° Edizione del Festival Di Cannes, il film si pone come un coming-of-age dalla fisionomia nitida e dolente, che attraversa un anno di formazione emotiva e spirituale nel corpo e nello sguardo di un’adolescente cresciuta nella banlieue parigina, musulmana praticante, lesbica, in bilico costante tra obbedienza e autodeterminazione.

La regista, classe 1987, marsigliese di origini algerine e tunisine — è un nome già centrale nella recente storia del cinema francese. Dopo la folgorante apparizione in La Graine et le Mulet di Kechiche (Premio Marcello Mastroianni a Venezia 2007), Herzi ha saputo imporsi non solo come attrice intensa e versatile, ma anche come regista attenta a una dimensione intima e comunitaria spesso dimenticata dal cinema d’autore europeo. Tu mérites un amour (2019) e soprattutto Bonne Mère (2021, Un Certain Regard a Cannes) l’hanno consacrata come una cineasta dell’ascolto e dell’osservazione, capace di raccontare il mondo arabo-francese senza estetizzazioni né pietismi.

Con La petite dernière, Herzi compie un ulteriore passo in avanti, scegliendo di adattare un testo letterario dallo stile frammentario e profondamente interiore. Ne mantiene la struttura episodica, l’essenzialità lessicale e soprattutto l’io narrante sommesso, trasformandoli in scelte estetiche: camera a mano, pochi movimenti di macchina, luce naturale, dialoghi ridotti all’osso. Il suo è un realismo calibrato, non urlato, che prende molto da Kechiche (le lunghe scene conviviali, la direzione degli attori non professionisti)

Fatima (una sorprendente Nadia Melliti, al debutto) è l’ultima arrivata, la petite dernière, in una famiglia di origine algerina in cui le regole sono non dette ma scolpite nella quotidianità. Il padre è una figura assente, la madre vigila, le sorelle fanno cerchio — eppure Fatima non trova spazio. Né in casa, né nella scuola, né nelle app di incontri dove si finge Jasmine, né nei flirt incerti che sbocciano e sfioriscono. Solo l’università, luogo di pensiero e possibilità, le offre un primo respiro.

Herzi non cerca il dramma identitario ad effetto. Il suo è uno sguardo paziente, che accarezza i corpi senza ingabbiarli, che coglie la tensione dei silenzi più che l’urgenza delle parole. Anche quando omaggia esplicitamente la vita di Adele — nella scena del Pride con Ji-na, l’infermiera di origine sudcoreana — lo fa con consapevolezza filologica, tracciando una linea diretta tra il cinema che l’ha formata e quello che oggi ambisce a realizzare.

È forse proprio questa fedeltà all’intimo, al fragile, a rendere La petite dernière un’opera paradossale: limpida nella forma, sfuggente nel coinvolgimento. Se da un lato l’equilibrio stilistico sorprende, dall’altro emerge una certa ritrosia nel dare corpo al conflitto. Le pulsioni restano spesso implicite, le relazioni appena abbozzate, le svolte narrative smussate. Così, la rabbia repressa, i primi baci, la delusione amorosa, la preghiera disperata restano contenuti in un contenitore elegante ma a tratti troppo trattenuto.

La regia è salda, sorretta da una fotografia che alterna naturalezza e introspezione (ottimo il lavoro di Jérémie Attard), e soprattutto da un cast composto da volti per lo più inediti, diretti con sobrietà e misura. Melliti incarna Fatima con una fisicità essenziale, mai manierata: è un volto che trattiene, una postura che sfugge, un’identità che si cerca. Ma è proprio in questa scelta di sottrazione che il film rischia talvolta di non vibrare come dovrebbe. Dove il libro di Daas feriva e commuoveva, il film osserva, misura, e infine smussa.

Ciononostante, La petite dernière resta un’opera necessaria. Per il tema — la difficoltà di essere sé stesse in un contesto multiculturale e patriarcale, lacerato tra religione e autodeterminazione — e per la voce autoriale che conferma Hafsia Herzi come una delle registe più interessanti del panorama francese contemporaneo. Il suo è un cinema che crede nella forza silenziosa dell’intimità e che si muove nel solco dell’autenticità più che dell’enfasi. Un cinema fatto di sussurri e tremiti, che sa che l’identità non è un grido, ma una domanda che non sempre trova risposta.

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