di Marco Trovato – direttore editoriale della rivista Africa
Spesso liquidata come un fallimento irreparabile, la democrazia africana viene descritta da analisti e media occidentali come un sistema ormai al collasso, travolto da colpi di stato, regimi autoritari e repressioni violente. Ma uno sguardo più attento racconta una realtà diversa.
“La democrazia in Africa è morta”. Così sentenziano con sempre maggiore frequenza analisti e osservatori occidentali, di fronte a quello che appare come il fallimento di leader politici accusati sulle piazze di corruzione, clientelismo e malgoverno. Negli ultimi anni, vaste aree del continente sono state travolte da un’ondata di instabilità politica, segnata da proteste di massa, repressioni violente e derive autoritarie che hanno messo a dura prova le istituzioni democratiche. I colpi di stato sono tornati a proliferare – ben nove negli ultimi cinque anni – riportando in auge le autocrazie militari, mentre alcuni “dinosauri” della politica continuano a rimanere saldamente al potere: Teodoro Obiang governa la Guinea Equatoriale dal 1979, Paul Biya il Camerun dal 1984, Yoweri Museveni l’Uganda dal 1986.
Altri leader scivolano sempre più apertamente verso l’autoritarismo, eliminando oppositori, manipolando elezioni e restringendo le libertà. Dal Sahel all’Africa centrale, passando per il Corno d’Africa, non solo le giunte militari, ma anche governi formalmente civili hanno rafforzato il controllo con misure sempre più repressive volte a soffocare il dissenso. In molti casi, le elezioni si sono ridotte a mere formalità, come in Rwanda, dove lo scorso anno Paul Kagame è stato riconfermato con oltre il 99% dei voti. Di fronte a tale scenario, cresce lo scetticismo sul futuro della democrazia africana. Alcuni analisti e think tank parlano di crisi irreversibile. Ma è davvero così? O è il nostro sguardo parziale? Golpe e rivolte monopolizzano l’attenzione dei media, ma ci sono segnali opposti che meritano considerazione.

A colmare la lacuna è un recente studio sullo stato della democrazia nel continente africano, curato da Tiziana Corda, ricercatrice dell’Ispi, significativamente intitolato Eppure resiste, che evidenzia un dato chiave: nel 2024, mai come prima, in Africa si sono tenute elezioni libere e multipartitiche che hanno portato a reali alternanze di governo. In diversi Paesi, il voto popolare ha punito i leader uscenti, costringendoli a cedere il potere. È il caso del Senegal e del Botswana, dove i partiti al governo hanno perso la maggioranza e accettato la sconfitta, o del Sudafrica, dove l’African National Congress ha dovuto condividere il governo con altre forze politiche per la prima volta nella sua storia. Non solo. Nei momenti più critici, là dove alcuni presidenti hanno cercato di aggirare le regole democratiche (come in Kenya e Senegal), sono intervenute istituzioni di garanzia che hanno difeso la legalità costituzionale, a dimostrare che anche negli Stati africani esistono anticorpi alle derive autoritarie. E poi ci sono le piazze: i giovani che sfilano con rabbia per chiedere giustizia e diritti non segnano il fallimento della democrazia, ma ne testimoniano la vitalità. La stessa che ritrovo ogni volta che assisto, nelle università e negli slum, a dibattiti infuocati, campagne di protesta e mobilitazioni giovanili.

Mentre molti di noi hanno smarrito la voglia di partecipare, i figli dell’Africa – il 70% dei quali ha meno di 25 anni – mostrano di voler incidere sul proprio futuro. La democrazia africana è fragile e costantemente messa alla prova, ma non è morta. Resiste, tra battute d’arresto e slanci di rinnovamento, sostenuta dalla tenacia di movimenti civici e attivisti coraggiosi che sfidano l’arroganza e la prepotenza di leader corrotti o inetti. E noi, in Occidente, sempre più disillusi dalla politica, con l’astensionismo in crescita e le democrazie liberali in affanno – da Trump a Orbán – dovremmo evitare i giudizi sommari sull’Africa e dar prova di maggiore cautela nel dispensare lezioni di moralità democratica, riscoprendo piuttosto quella passione e determinazione nel battersi per il cambiamento.
Foto di apertura: PATRICK MEINHARDT / AFP