di Enrico Casale
La Libia di oggi è un Paese diviso, attraversato da rivalità profonde e pesantemente condizionato da interessi stranieri. Ne abbiamo parlato con Michela Mercuri, docente di Cultura, storia e società dei Paesi musulmani all’Università di Padova e di Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano.
Un Paese spaccato in due, con profonde rivalità e forti influenze da parte di attori esterni. Questa è la Libia di oggi. Una nazione che non ha ritrovato la stabilità dopo il crollo del regime di Muammar Gheddafi nel 2011 e il cui futuro unitario è assai incerto. «In un quadro in cui la frammentazione tra Est e Ovest è ormai una costante del dopo Gheddafi – spiega Michela Mercuri, docente di Cultura, storia e società dei Paesi musulmani all’Università di Padova e di Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano – un accordo tra le due parti sembra sempre più difficile col passare del tempo».
Attualmente, Tripoli e il Nord-Ovest sono sotto l’autorità del Governo di unità nazionale (Gnu) del primo ministro Abdul Hamid Dbeibah, appoggiato dall’Alto Consiglio di Stato e dal Consiglio presidenziale. L’Est del Paese e vaste regioni della Libia centrale e meridionale sono nominalmente controllate dalla Camera dei Rappresentanti e dal Governo di stabilità nazionale, ma di fatto il potere è nelle mani del generale Khalifa Haftar.
«Qualunque iniziativa delle Nazioni Unite per portare il Paese verso nuove elezioni, come è stato fatto più volte, si scontra con l’ostruzionismo di politici e uomini forti – continua Michela Mercuri –. Nella realtà dei fatti, è lecito ipotizzare che i leader libici non negozino in buona fede, cercando di inficiare qualunque tentativo di unificazione. Indire nuove elezioni e creare un nuovo assetto politico vorrebbe dire rischiare di perdere posizioni di potere acquisite da tempo, ma anche lucrosi rapporti economici che esponenti libici intrattengono ormai da tempo con vari attori esterni».
Ad esempio, riporta Michela Mercuri, uno dei figli di Khalifa Haftar è alla guida del Fondo per la ricostruzione e lo sviluppo, un ente creato per gestire progetti infrastrutturali e industriali molto redditizi, ma che non si è distinto per la trasparenza. Lo stesso generale sta dialogando con Mosca per valutare un possibile potenziamento delle strutture di Tobruk per ospitare navi da guerra russe.
«Questo – osserva Michela Mercuri – è solo un tassello di un sistema di corruzione diffusa in tutto il Paese che avvantaggia le varie fazioni al potere. Detta in altri termini: perché i vari leader dovrebbero rischiare di smantellare un sistema di business consolidato per un futuro incerto? In questo contesto, le organizzazioni internazionali possono fare ben poco, perché manca la volontà delle parti».

Alle spalle delle due fazioni si muovono attori internazionali. La Turchia è ancora un attore molto forte in Tripolitania. Nel 2019, il governo di Ankara era intervenuto a sostegno di Fayez al-Sarraj, l’allora premier del Governo di accordo nazionale riconosciuto dall’Onu, contro l’avanzata verso Tripoli del generale Khalifa Haftar. Con la vittoria militare della Tripolitania, Ankara ha goduto di importanti premi economici: appalti per la ricostruzione e altri investimenti strategici. Con l’arrivo al comando di Abdul Hamid Dbeibah le cose non sono cambiate, e sono stati siglati numerosi accordi, tra cui un’intesa tra Tripoli e Ankara per investimenti nelle energie rinnovabili.
«La Turchia – spiega Michela Mercuri – potrebbe rafforzarsi non solo in Libia, ma in tutto il Nordafrica. La vera novità, però, sta nel tentativo turco di allargare la propria influenza a Est, terra del generale Haftar e con una significativa presenza russa. Giova ricordare la recente visita a Istanbul di Saddam Haftar, comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico e figlio del generale Khalifa. Un possibile avvicinamento al clan Haftar, che controlla porzioni strategiche comprese tra la Cirenaica, il Fezzan e i confini con Ciad e Sudan, potrebbe consentire alla Turchia di ottenere nuove concessioni per l’esplorazione e lo sfruttamento degli idrocarburi anche in nuove aree. Sembrerebbe, dunque, che la Turchia stia orientando la propria politica estera in Nordafrica verso una diplomazia incentrata sulla diversificazione delle alleanze militari ed energetiche».
A complicare la già precaria situazione si è inserito il conflitto in Sudan tra le forze armate guidate da Abdel Fattah al-Burhan e le milizie di Mohamed Hamdan Dagalo. La guerra, in corso dal 2023, sta incrinando alleanze ormai consolidate, in primo luogo quella tra Khalifa Haftar e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.

«Secondo un articolo del Wall Street Journal che cita non meglio precisate fonti “informate” – spiega Michela Mercuri –, Haftar avrebbe inviato almeno un aereo per trasportare rifornimenti militari alle Forze di supporto rapido (RSF) in Sudan. Mentre, secondo l’Ansa, l’Egitto avrebbe inviato aerei da guerra e piloti per sostenere l’Esercito sudanese. I rapporti tra Haftar e Dagalo sono di vecchia data: basti ricordare che il generale sudanese ha inviato combattenti per aiutare l’uomo forte della Cirenaica durante il tentativo, fallito, di impadronirsi della capitale libica nel 2019. Ancora oggi, i miliziani sudanesi affiliati al generale Dagalo svolgono funzioni di guardia nelle strutture militari e nei pozzi petroliferi controllati da Haftar. La domanda è: fin dove può spingersi Haftar nel sostegno a Dagalo senza perdere lo strategico alleato egiziano? E viceversa? L’Egitto, infatti, è storicamente alleato con Haftar, necessario per bloccare i possibili flussi di jihadisti che dalla Libia potrebbero dirigersi in territorio egiziano, e per questo lo rifornisce di armi».
È, secondo Michela Mercuri, un rapporto di reciproca convenienza che rischia di essere interrotto, con conseguenze per entrambe le parti. E forse non conviene a nessuno dei due. C’è poi il rischio che anche la Libia venga in qualche modo “risucchiata” nel pantano sudanese.
La crisi nel Sahel riguarda soprattutto l’Est libico, dove è presente una forte componente militare russa. “Molti degli armamenti russi arrivati di recente in Libia, anche dalle basi siriane di Latakia e Tartus – conclude Michela Mercuri – non sono destinati a restare nel Paese, ma a rinforzare le unità di Mosca presenti in alcuni Stati africani e soprattutto nel Sahel. La cooperazione tra la Russia e le giunte militari riunite nella cosiddetta Alleanza degli Stati del Sahel (AES) è sempre più stretta, da quando Mali, Burkina Faso e Niger hanno liquidato la storica presenza francese. Da qui la necessità di rifornire le forze russe già presenti in Africa di nuovi armamenti. E qui entra in gioco lo stretto rapporto tra Haftar e la Russia: il leader dell’Est libico metterebbe a disposizione porzioni del territorio da lui controllate come snodi logistici del network africano di Mosca.
Da un po’ di tempo si discute anche della possibilità che la Russia apra una base navale a Tobruk. Se questo scenario si concretizzasse, avremmo uno scenario ben più rischioso. Potenzialmente si andrebbe a unire alla guerra ucraina e alla destabilizzazione delle rotte che risalgono il Mar Rosso: un fronte mediterraneo per indebolire la Nato”.