di Céline Camoin
La decisione del governo della RDC di mettere all’asta decine di concessioni petrolifere nel bacino centrale scatena la dura reazione di 176 organizzazioni ambientaliste. “Un progetto in contraddizione con gli impegni climatici e con il futuro sostenibile del Paese”.
La decisione del governo congolese di aprire 52 nuovi blocchi petroliferi nel bacino centrale suscita indignazione in diversi ambienti. “Questo progetto rappresenta una minaccia diretta per gli ecosistemi forestali più densi e ricchi del Paese. È un’assurdità ecologica in un momento in cui la Repubblica Democratica del Congo sta cercando di proporsi come Paese che offre soluzioni per affrontare il cambiamento climatico”, ha affermato in una dichiarazione la coalizione La nostra terra senza petrolio, una piattaforma che riunisce 176 organizzazioni congolesi e internazionali. La dichiarazione è stata rilasciata da Moanda, nel Congo Centrale.
Sebbene il governo congolese intenda svolgere un ruolo di primo piano nella lotta globale contro il riscaldamento climatico, secondo queste organizzazioni l’approccio adottato appare in palese contraddizione con gli impegni assunti in materia ambientale. “Nemmeno il coinvolgimento di esperti del Ministero dell’Ambiente nelle valutazioni di questi progetti è sufficiente a nascondere l’entità del pericolo. Si sta tentando di dare un tocco di greenwashing a una politica fondamentalmente incompatibile con i principi della sostenibilità”, sostengono le organizzazioni firmatarie.
Ad alimentare le polemiche contribuisce anche il tracciato dei nuovi blocchi petroliferi, che interseca parte del Corridoio Verde Kivu-Kinshasa, un progetto di ripristino ecologico sostenuto da partner internazionali, come sottolinea il sito d’informazione Tazama. Questa sovrapposizione solleva il timore di una perdita di finanziamenti, di un crollo delle partnership ambientali e, soprattutto, di una perdita di credibilità per la Rdc. “Non possiamo presentarci come attori della transizione verde mentre organizziamo la distruzione pianificata di uno dei più grandi pozzi di carbonio del pianeta”, afferma la coalizione.

L’esperienza di Moanda, città petrolifera sulla costa atlantica del Congo, viene spesso citata come esempio di un modello estrattivo da evitare. “Inquinamento cronico del suolo e dell’acqua, biodiversità marina distrutta, aumento delle malattie, tensioni comunitarie… e nessun miglioramento delle condizioni di vita. È un modello di sfruttamento fallito”, denuncia La nostra terra senza petrolio, che vede in questa nuova iniziativa la ripetizione su larga scala di un fallimento già noto.
La coalizione ricorda anche il bando di gara lanciato nel 2022, interrottosi bruscamente. Secondo le organizzazioni e alcuni osservatori, il processo si è arenato per mancanza di interesse da parte degli investitori. “Un bando simile è già fallito nel 2022 per mancanza di interesse. Perché allora insistere su questa strada, se non per interessi privati che non porteranno mai benefici al popolo congolese?”, si chiedono nel comunicato stampa.
Di fronte a questa situazione, La nostra terra senza petrolio avanza tre richieste chiare: la cessazione immediata della vendita dei 52 blocchi petroliferi, l’annullamento dei tre blocchi già assegnati e l’istituzione di una moratoria completa sull’esplorazione e lo sfruttamento di petrolio e gas nella Rdc.
La coalizione fa inoltre appello ai partner internazionali, invitandoli “a non finanziare, sostenere o partecipare a questi progetti che tradiscono le aspirazioni del popolo congolese a un futuro di pace, giustizia e dignità”. Per questi difensori dell’ambiente, il vero sviluppo passa attraverso la tutela del patrimonio naturale congolese e non dalla sua commercializzazione a breve termine.