di Marco Aime
Una compagnia amatoriale – tutti bravissimi – gira per il nord del Benin facendo un’efficace satira sociale. Che non fa solo ridere, ma coinvolge gli spettatori in un’accesa riflessione sulla propria società.
Il gendarme graduato sta seduto con aria cattiva. Fissa nel vuoto davanti a sé e agita nervosamente un bastone di legno. L’autista rimane in piedi poco distante, un po’ chinato, in segno di reverenza: «Patron, i miei documenti».
«Aspetta!», dice il graduato, corrucciando la fronte sotto il suo cappello di carta.
«Cosa facciamo?», chiede fingendo di sussurrare il gendarme semplice.
«Facciamolo aspettare, questi burkinabè hanno un sacco di soldi. Vedrai che capisce».
L’autista tenta una supplica: «I documenti, patron».
«Fallo aspettare ancora un po’».
Non è una delle tante scene di corruzione quotidiana vissute dagli autisti africani. È una delle pièce satiriche messe in scena da un gruppo di giovani di Natitingou (Benin). Espoir du soleil si chiamano, e girano per i villaggi della regione con il loro repertorio satirico.
«Abbiamo iniziato in tredici, tutti amici», mi dice Fall, uno dei fondatori del gruppo. Lungo, allampanato, la testa rasata, gira con una canottiera da basket e scrive poesie bellissime. Sembra uscito da un film di Spike Lee. «Non siamo dei professionisti. La nostra intenzione era di sensibilizzare la gente su temi sociali e ci è sembrato che il teatro fosse la formula giusta».
I ragazzi dell’Espoir du soleil hanno iniziato a fare le loro rappresentazioni nei villaggi della regione. Recitano in wama, in otammari e in yom, a seconda del pubblico presente. «Quel che ci preme è far riflettere la gente sui problemi attuali, come la corruzione dei pubblici ufficiali, le mutilazioni genitali, i matrimoni forzati. Noi provochiamo, facciamo ridere, ma la gente poi su queste cose discute, si arrabbia. È questo che vogliamo».

La scena dei gendarmi che aspettano di essere “unti” è esilarante. I ragazzi imitano alla perfezione l’atteggiamento arrogante di molti poliziotti locali sempre in caccia di tangenti. Così come la segretaria della pièce successiva, che si rivelerà essere anche l’amante del capo e che vessa i poveri cittadini che devono ritirare i loro documenti, facendoli attendere per ore, mentre il solito furbo, con un biglietto da 1000 Cfa tra le dita, ottiene subito il suo dossier con mille riverenze e ringraziamenti.
C’è poi una storia sui matrimoni forzati, dove un padre, contro il volere della moglie, promette la figlia in sposa a un anziano benestante che si rivelerà ben presto un millantatore. I dieci camion promessi al padre della sposa non esistono, così come la villa e tutte le altre ricchezze. Non ci sono nemmeno i soldi per mangiare, nella nuova coppia, e l’anziano marito arriverà persino a picchiare la ragazza.
In questa come in altre pièce, dietro alle risate c’è l’amarezza di una realtà che vede spesso le donne in balia di tradizioni dure a morire. Come quella dell’escissione. Una coppia giovane vorrebbe impedire che la figlia venga sottoposta a questa pratica, ma intervengono zii e parenti e la costringono a subire la mutilazione che la condurrà alla morte.
I ragazzi e le ragazze del gruppo sono bravissimi. Con sarcasmo e ironia mettono in luce le contraddizioni della loro società. Imitano benissimo la parlata impacciata del contadino, il tono pomposo del funzionario, l’aria snob dell’impiegata pubblica.
«I pezzi li scriviamo noi. Più che scriverli, li abbozziamo, poi ognuno improvvisa come gli pare. Cambiamo di volta in volta». Si battono contro una tradizione talvolta soffocante e inadeguata, ma anche contro il malvezzo dei nuovi potenti. E lo fanno con il mezzo più tradizionale della cultura africana: l’espressione orale, che poi orale non è mai stata, bensì teatrale. Una tradizione che sa rinnovarsi e adeguarsi, adattandosi ai tempi.
«Quanto costa ingaggiarvi?».
«Costa la fatica di invitarci», dice Fall ridendo. «La gente, se vuole, ci dà qualcosa alla fine dello spettacolo. Tutto lì. L’ho detto, non siamo professionisti. Noi facciamo un teatro-forum, cerchiamo di coinvolgere la gente».
La sera scende in fretta nei villaggi africani. La gente siede tutta su un prato, in attesa degli attori. Anche questa volta il tono è satirico e lo stile è quello della commedia dell’arte.
Il titolo è L’eau de mon barrage. Nella regione, afflitta da sempre da siccità come tutto il Sahel, hanno costruito numerose dighette per imbrigliare la poca acqua piovana per irrigare campi e orti, ma che spesso viene utilizzata per bere. La pièce mette in scena una famiglia sul cui campo è stata costruita una di queste dighe, che il capofamiglia chiama “mon” barrage. Gli altri cercano invano di convincere lui e la moglie che il barrage è per tutta la comunità. Nulla. La moglie inoltre prende in giro le altre donne che fanno chilometri per prendere acqua dal pozzo, mentre lei può bere l’acqua del “suo” barrage, senza fare un passo.
Danze e tamburi interrompono la scena. Poi la coppia ricompare. Lui è diventato cieco a causa dell’oncocercosi, lei zoppica per il verme di Guinea. La gente si sbellica, deride i due sbruffoni, li insulta. Poi gli attori si bloccano. Entra in scena una specie di arlecchino che gioca a fare il provocatore e si rivolge al pubblico: «Avete visto? Avete capito chi aveva ragione e chi no?».
Dal pubblico arrivano commenti e lazzi, la gente irride la coppia, ma gli attori difendono le loro scelte: «Ma che sbagliano e sbagliano, vacci tu a prendere l’acqua a tre chilometri. Io bevo la mia, qui, a due passi da casa!», fa la donna inviperita.
«Ma è sporca, vi fa male!».
«Macchè sporca! Le dighe le fanno i bianchi e loro sanno come fare», replica il marito con aria dolorante. Il pubblico ride, discute, si accalora, cerca di spiegare e capire.
«È questo che intendiamo per teatro-forum», mi spiega Fall alla fine. «La gente viene qui e continua la recita. Chiunque può intervenire. A volte, in qualche villaggio, sono andati avanti fino alle tre di notte. Noi crollavamo dal sonno e loro lì a discutere. È a questo che serve il nostro teatro».