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fede

    QUADERNI AFRICANI

    La fede tra confini e generazioni: il caso del muridismo senegalese in Toscana

    di claudia 19 Aprile 2025
    Scritto da claudia

    di Valentina Geraci –  Centro studi AMIStaDeS APS

    Il legame tra fede, diaspora e identità per molti cittadini senegalesi è profondo e complesso. Nonostante la varietà delle pratiche religiose e delle opinioni all’interno della stessa comunità senegalese, in questa conversazione con Pape Diaw e Abdou M. Diouf esploriamo l’evoluzione del muridismo tra Senegal, Italia e la comunità muride della diaspora, con un focus particolare sulla Toscana.

    Dopo un periodo di ricerca dedicato al tema delle scuole coraniche in Senegal e dell’identità religiosa tra Italia e Senegal, i miei studi si arricchiscono oggi di nuove riflessioni sul legame tra fede, appartenenza e il modo in cui la religiosità si manifesta oltre i confini nazionali. In un mondo sempre più interconnesso, vivere la propria spiritualità si ridefinisce in contesti esteri, creando spazi transnazionali di pratica e condivisione.

    Pur concentrandosi su esperienze significative, è importante precisare che in questa intervista non è stato possibile esplorare tutte le sfaccettature della diaspora senegalese in Italia. Le pratiche religiose, infatti, variano profondamente in base alle esperienze individuali, alle Confraternite di appartenenza, al contesto locale e a molteplici altre influenze.

    Ci siamo focalizzati, però, sul caso del muridismo in Toscana, grazie all’opportunità di incontrare Abdou M. Diouf, autore dei volumi È sempre estate e Il pianista del Teranga, e Pape Diaw, una figura autorevole e di riferimento per i senegalesi in Toscana. In un dialogo ricco di spunti, entrambi ci guidano alla scoperta del muridismo tra continuità e innovazione, riflettendo su come la fede si mantenga in un contesto migratorio, quali pratiche emergano e come le prospettive tra le generazioni si stiano evolvendo.

    Dalle comunità alle associazioni: cosa è cambiato? Negli anni ’80-’90 la diaspora senegalese in Italia si organizzava principalmente in comunità, mentre oggi l’associazionismo ha assunto un ruolo centrale. Quali sono le principali differenze tra questi due modelli? E in che modo il passaggio alle associazioni ha influenzato la pratica religiosa dei senegalesi in Toscana secondo voi?

    Pape Diaw: Noi, un tempo, avevamo le dahira, vere e proprie comunità, non semplici associazioni. La differenza è enorme. La comunità era un luogo di vita condivisa, un punto di riferimento per tutti, basato su un sostegno continuo e reciproco. Oggi, invece, ci sono molte associazioni, ma manca quello spirito di unità che caratterizzava gli anni ’90. La dahira non era solo un luogo di preghiera e di studio del Corano, ma anche un rifugio per chiunque avesse difficoltà: una vera rete sociale. Se qualcuno aveva un problema, tutta la dahira si mobilitava per aiutarlo. Oggi, invece, secondo me, la comunità è più frammentata.

    Negli anni ’80, infatti, il 95-98% dei senegalesi che arrivavano provenivano da contesti rurali, dove il legame con le dahira, le associazioni culturali e religiose, era molto forte. Già nei primi anni ’90, in Toscana, esisteva una federazione regionale, e anche la dahira fiorentina era attiva, riflettendo l’importanza di queste strutture per la comunità.

    Qui, all’inizio, costruire una comunità religiosa non fu semplice, perché mancavano spazi adeguati per riunirsi. La Comunità Senegalese in Toscana fu la prima ad avere una sede nel centro città, con un ufficio e una grande sala capace di ospitare centinaia di persone. Le comunità di Pisa, Firenze e Arezzo erano molto attive: Arezzo, in particolare, aveva una delle comunità senegalesi più grandi dell’epoca, più numerosa di quella attuale. In questo triangolo toscano si organizzavano ogni anno eventi religiosi molto sentiti. Negli anni ’90, diversi eventi religiosi portarono in Toscana alcune tra le più importanti guide spirituali senegalesi della Confraternita muride, oltre a diversi marabout. Stavamo costruendo basi solide per la comunità. Pensa che il primo Magal d’Europa è stato celebrato proprio qui in Italia.

    Importante accennare, qui brevemente, a un cambio di politiche migratorie e a trasformazioni sociali in Senegal e in Italia nel corso degli anni, che hanno influenzato sia la pratica religiosa sia le modalità di aggregazione della diaspora. Attualmente, il modello comunitario tradizionale è messo alla prova da due dinamiche principali: il passaggio menzionato dall’organizzazione in comunità all’associazionismo e il crescente divario generazionale. Mentre chi ha ricevuto una formazione religiosa in Senegal tende a mantenere un legame con le tradizioni, adattandosi alle influenze culturali locali, i giovani cresciuti in Italia sviluppano spesso una prospettiva differente sulla religiosità rispetto a noi, prime generazioni. Senza alcuna generalizzazione.

    In particolare, l’accesso alla formazione islamica risulta frammentato: chi non ha frequentato la scuola coranica può avere una conoscenza più limitata degli insegnamenti tradizionali, e i genitori incontrano difficoltà nel trasmettere questa eredità, sia per mancanza di tempo sia per la complessità di conciliare pratiche religiose e contesto estero. Inoltre, rispetto alle comunità del passato, le associazioni attuali sembrano aver perso parte del loro ruolo aggregativo e di supporto collettivo, con una conseguente trasformazione delle dinamiche di coesione sociale tra i senegalesi.

    Abdou M. Diouf: Dopo aver ascoltato la descrizione di Pape, mi tornano alla mente tanti ricordi della mia infanzia. È come se rivedessi tutto scorrermi davanti agli occhi. Sono cresciuto ad Arezzo, e da bambino eravamo solo in tre della mia età. Mio padre era molto attivo dal punto di vista religioso e, quando Pape parla della comunità aretina, penso subito a lui. Il senso di comunità era fortissimo: si aspettavano con entusiasmo quei momenti di incontro, erano occasioni preziose per stare tutti insieme.

    Quando Pape parla di scontro generazionale, mi rendo conto di trovarmi in una posizione intermedia: ho vissuto sia l’epoca delle dahira come comunità, sia quella attuale. Io mi sento in mezzo. È vero che alcuni ragazzi si allontanano, ma non tutti. Io non ho seguito una scuola coranica in Senegal, se non per tre mesi, una estate, e oggi faccio parte di una dahira, perché ho capito l’importanza di quello che mi è stato insegnato in famiglia, da mio padre, qui in Italia. Però ci sono ragazzi che non hanno avuto questa formazione, e allora diventa più difficile per loro capire certi valori.

    Inevitabilmente, con il passare del tempo, qualcosa cambia, e i conflitti generazionali fanno parte di questa evoluzione. Ma non tutto il cambiamento è negativo, anzi. Da bambino, ricordo che ad Arezzo si parlava molto di religione e di muridismo, soprattutto nei momenti comunitari, incontrandoci nelle case e leggendo il Corano insieme. Oggi, invece, le nuove generazioni all’interno delle dahira affrontano anche temi di attualità: vengono invitati esperti e professionisti, e si offre supporto su questioni pratiche, come il rinnovo del permesso di soggiorno, la cittadinanza o altre pratiche burocratiche. Noi giovani cerchiamo di rendere un servizio utile alla comunità, perché restare informati su leggi e documenti fondamentali è essenziale per tutti.

    In più, in Toscana, esistono oggi dahira con nomi che in wolof significano “piedi piccoli”, simbolo di una comunità in continua evoluzione, capace di adattarsi ai tempi senza perdere il legame con le proprie radici. Queste realtà non solo rispondono alle nuove esigenze locali, ma si impegnano anche in progetti sociali in Senegal, rafforzando il ponte tra le due sponde dell’oceano.

    Nel frattempo, è vero che la situazione è profondamente cambiata rispetto al passato. Ma anche in meglio. Oggi esistono più scuole coraniche in Italia, anche se non ufficialmente riconosciute, e le moschee sono una presenza stabile sul territorio.

    Alla luce delle vostre riflessioni, possiamo dire che il ruolo delle dahira non è scomparso, ma si sta trasformando in qualche modo, adattandosi ai nuovi contesti e creando nuove connessioni tra persone e Paesi. È una lettura corretta?

    Abdou M. Diouf: Oggi, gli strumenti digitali come le videochiamate, i gruppi Facebook e l’uso di WhatsApp permettono di partecipare alla vita delle dahira anche a distanza, superando i confini fisici. Personalmente, ne faccio esperienza diretta: la mia dahira di origine è ad Arezzo, ma a causa del lavoro e della distanza spesso non riesco a essere presente fisicamente. Grazie alla rete, però, posso unirmi online o partecipare agli incontri delle dahira nelle città in cui mi trovo temporaneamente.

    Un esempio concreto mi è capitato di recente: ero ad Arezzo e ho visto mio padre partecipare a una dahira che si teneva a Touba, in Senegal. Questo dimostra come le distanze si siano accorciate e come la comunità si sia adattata, creando uno spazio religioso fluido. Oggi posso connettermi con persone di Bergamo, Arezzo, Firenze e altre parti d’Italia, ma anche con membri della diaspora all’estero, mantenendo vivo il legame con la dahira indipendentemente dal luogo in cui mi trovo. Penso che anche i giovani in questo abbiano giocato un ruolo determinante. Per citare un altro esempio, ti parlo del Magal di Touba un tempo molto riconosciuto e con un peso autorevole a Pisa, come in altre città italiane, capace di riunire qui senegalesi da tutta Europa, e che oggi è sempre più diffuso in Francia e in altre città europee.

    Ad ogni modo, pur riconoscendo i benefici della digitalizzazione nel mantenere i legami religiosi oltre i confini geografici, è importante considerare però anche le potenziali difficoltà che possono sorgere, come la perdita di connessione diretta, processi di costruzione e de-costruzione della propria identità e diversi interrogativi tra le generazioni.

    Pape Diaw: Le sfide della transnazionalità religiosa, se così possiamo definirla, riguardano in modo significativo anche i giovani senegalesi e i processi di adattamento tra il contesto senegalese e quello italiano. Questi processi cambiano a seconda del percorso individuale di ciascuno, dei legami che si mantengono sia nel paese di origine che in quello di residenza, e delle esperienze personali che ogni persona vive nel suo cammino di vita.

    In più, gli spazi e le geografie della vita religiosa stanno cambiando: se un tempo il fulcro della diaspora muride era principalmente in Europa, oggi assistiamo a una crescente espansione verso il Sud America, in particolare in Paesi come Argentina e Brasile, dove la presenza musulmana è passata dal 3-4% fino al 15%. Le dahira in America Latina stanno svolgendo un lavoro straordinario. Dall’Italia, seguo il loro operato grazie ai social, in particolare su TikTok, dove ho potuto osservare molte delle loro attività, soprattutto durante il periodo del Magal citato da Abdou. La digitalizzazione gioca un ruolo cruciale: queste comunità stanno costruendo nuove reti di connessione e diffusione della fede, attirando sempre più marabout verso il Sud America.

    Questo fenomeno è così significativo in Brasile da aver attirato l’attenzione delle autorità locali, preoccupate per l’impatto che potrebbe avere sulla società. Un’evoluzione che merita di essere approfondita e studiata con attenzione.

    Oltre ai social, all’interconnessione digitale, alle app e agli spazi di supporto online, sembra impossibile non parlare anche del ruolo della digitalizzazione nella divulgazione della religiosità.

    Pape Diaw: Negli anni ’80 e ’90, parlare di Islam era molto difficile. E in parte lo è ancora oggi, ma abbiamo fatto notevoli progressi. L’altro giorno, mentre pregavamo in moschea, un amico mi raccontava che, nel 1981, quando era arrivato in Italia, si vergognava persino di parlare arabo. Oggi, però, questo non accade più. Negli anni ’70 e ’80, a Firenze, eravamo solo 15 persone in un garage a celebrare il Tabaski. Oggi tutto è molto più vissuto e condiviso, senza doverci nascondere.

    Anche se ci sono ancora delle difficoltà, oggi esistono spazi che ci ascoltano e che ci permettono di esprimerci liberamente. I social media, per esempio, come detto, giocano un ruolo importante nel divulgare la religione. Le religioni, infatti, viaggiano e sempre più europei si avvicinano al mondo musulmano. Un tempo, le città erano più chiuse a questa apertura, ma oggi gli spazi che viviamo sono più inclusivi e interconnessi rispetto al passato. Guardando indietro, vediamo quanto siamo cambiati e dove siamo arrivati. Penso che sia stato fatto un lavoro colossale.

    E al tema della digitalizzazione, menziono anche quello delle rimesse economiche, delle app e dei finanziamenti della diaspora senegalese che oltre a sostenere le famiglie, sono indirizzati anche a moschee, scuole coraniche e progetti sociali in entrambi i Paesi.

    Abdou M. Diouf: Confermo quanto detto da Pape. Un tempo, il Magal era un evento che conoscevamo solo noi senegalesi, ma oggi è diventato un momento condiviso anche con molti italiani e i nostri amici, che si avvicinano per scoprire e conoscere. Questo cambiamento è molto significativo, soprattutto per le nuove generazioni, che hanno avuto la possibilità di aprire a un pubblico più ampio qualcosa che per i nostri genitori era più complesso da divulgare.

    Oggi, il Magal è diventato un evento interculturale. Ci sono tantissimi italiani che partecipano, alcuni anche da soli, semplicemente perché sono curiosi e vogliono saperne di più. Molti italiani partecipano anche vestiti secondo la tradizione, segno di un cambiamento che dimostra un maggiore rispetto e apertura rispetto al passato.

    Oggi molte persone, anche in Senegal, partecipano a riunioni online, mantenendo legami con i propri gruppi religiosi. La connessione digitale ha abbattuto molte barriere, consentendo alle persone di rimanere legate alle loro radici e di diffondere insegnamenti e tradizioni a distanza tra nuove forme e nuove sfide.

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