di Oumar Barry – Centro studi AMIStaDeS APS
La grazia concessa a Moussa Dadis Camara, ex leader della giunta militare del Conseil National pour la Démocratie et le Développement, da Mamadi Doumbouya, leader del colpo di Stato del 5 settembre 2021, solleva interrogativi sul rispetto dello Stato di diritto in Guinea. La misura ha riacceso il dibattito sulla credibilità del sistema giudiziario e sulla direzione della transizione democratica in corso.
La recente concessione della grazia presidenziale a Moussa Dadis Camara da parte del capo della giunta militare guineana Mamadi Doumbouya non rappresenta solo un atto formale del potere esecutivo, ma si pone come una svolta politica e simbolica nell’evoluzione della transizione democratica in Guinea. Apparentemente giustificata da ragioni umanitarie, questa decisione trascende la dimensione giuridica per entrare con forza nella sfera politica, etica e istituzionale. In un contesto segnato da tensioni democratiche, il provvedimento è stato interpretato da diversi osservatori come un segnale della fragilità dello Stato di diritto in Guinea, alimentando interrogativi sull’equilibrio dei poteri, sull’autonomia della giustizia e sulla trasparenza dell’azione pubblica.
Mamadi Doumbouya aveva promesso al popolo guineano un cambiamento radicale. Le sue prime dichiarazioni, cariche di speranza, avevano trovato eco in un Paese stanco di decenni di autoritarismo e corruzione. “La giustizia sarà la bussola che guiderà ogni nostra decisione”, aveva detto, attirando il favore di una popolazione desiderosa di dignità, legalità e trasparenza. Ma gli eventi recenti, e in particolare la grazia concessa a Dadis Camara, hanno incrinato profondamente questa promessa. Per molti, la “bussola” evocata da Doumbouya sembra oggi essersi persa in una nebbia di calcoli politici, convenienze personali e restauri autoritari.
Da un punto di vista tecnico-giuridico, la grazia presidenziale rientra tra le prerogative riconosciute al capo dello Stato. Può essere concessa in forma collettiva o individuale; può rispondere a ragioni umanitarie o simboliche, e in molte giurisdizioni è utilizzata in occasione di festività o eventi commemorativi per segnalare clemenza e riconciliazione. Tuttavia, nei sistemi democratici, alla legittimità giuridica di un atto si affianca anche una dimensione di legittimità politica e morale. In questo senso, la forma non può prescindere dalla sostanza: la legalità formale non sempre equivale a giustizia sostanziale.
Nel caso della grazia concessa a Dadis Camara, molti cittadini evidenziano criticità legate all’assenza di trasparenza e alla mancanza di un processo consultivo. L’atto appare isolato, intempestivo e privo di trasparenza e consultazione. Il provvedimento non risulta inserito in un contesto collettivo né accompagnato da valutazioni note delle autorità giudiziarie. Inoltre, non sono emersi elementi pubblici che giustifichino la decisione sulla base di criteri sanitari, umanitari o di equità tra coimputati. In questo quadro, diversi analisti interpretano l’atto come una scelta di natura eminentemente politica, presentata però come iniziativa umanitaria.
La figura di Moussa Dadis Camara non è un detenuto ordinario. Ex leader della giunta militare del CNDD (Conseil National pour la Démocratie et le Développement), è stato condannato a 20 anni di reclusione per crimini contro l’umanità, in particolare per il massacro del 28 settembre 2009 a Conakry, durante il quale sono stati uccisi più di 150 manifestanti pacifici, centinaia di feriti e numerose donne sono state violentate. Questo evento ha rappresentato una profonda frattura nella memoria collettiva della Guinea, un simbolo della brutale repressione del dissenso.

Dopo anni di ritardi procedurali, pressioni politiche e silenzio istituzionale, il processo contro i responsabili è iniziato solo nel 2022. Il suo inizio era stato salutato come un momento cruciale per il consolidamento dello Stato di diritto, interpretato da molti come un test per la giustizia guineana e la credibilità della transizione post-Condè. In questo contesto, la decisione di Doumbouya di concedere la grazia presidenziale a Dadis Camara dopo qualche mese dalla sua condanna definitiva rappresenta un duro colpo alla credibilità dell’istituzione giudiziaria, svuotando di significato l’intero processo e compromettendo l’idea stessa di giustizia. Sebbene la giunta militare abbia annunciato misure di riparazione per le famiglie delle vittime del massacro, questa iniziativa appare inadeguata se confrontata con l’incoerenza rappresentata dal rilascio selettivo dell’ex capo della giunta.
A suscitare ulteriore dibattito è la permanenza in carcere di altri imputati coinvolti nello stesso processo, tra cui Claude Pivi, Toumba Diakité, Thiegboro Camara e Marcel Guilavogui rimangano in carcere, nonostante siano in condizioni di salute ben peggiori. Tale disparità di trattamento ha alimentato interrogativi sulla natura selettiva della grazia concessa, che secondo alcuni si configurerebbe più come un atto di favore strategico che come un provvedimento ispirato da principi umanitari. Analizzata nel più ampio contesto della transizione guineana, la decisione del presidente della transizione Mamadi Doumbouya appare sintomatica di una crescente concentrazione di potere e personalizzazione della leadership. L’atto di clemenza nei confronti di Camara, lungi dall’essere percepito come neutrale o riconciliatorio, è stato letto da gran parte dell’opinione pubblica come una mossa opportunistica, volta a consolidare il consenso in vista di una possibile candidatura di Doumbouya alle prossime elezione presidenziale che dovrebbe avvenire entro la fine del 2025, e con questa mossa in aperto contrasto con le disposizioni della Carta di transizione. Questo gesto rischia di alimentare ulteriormente il disincanto verso un processo democratico già fragile.
Dadis Camara, nonostante le gravi accuse a suo carico, sembra conservare una notevole influenza nella regione forestiera, sua terra d’origine. In Guinea, come in molti contesti africani, dove le strutture statali sono spesso deboli, le affiliazioni etniche, regionali e comunitarie giocano un ruolo fondamentale nelle dinamiche politiche. Rilasciare Camara potrebbe significare assicurarsi il sostegno elettorale di un’importante base territoriale e simbolica. Si tratta di una compravendita politica, non di giustizia. Il politologo Achille Mbembe ci offre una lente utile per interpretare questa dinamica. In uno dei suoi saggi più noti, Sortir de la grande nuit, scrive: “Il potere postcoloniale africano vive nella continua ambiguità tra legalità e arbitrio, tra legge e desiderio personale del leader”. La grazia a Dadis Camara si inscrive proprio in questa ambiguità.
Il recente sviluppo politico in Guinea può essere interpretato quindi non solo come un tradimento alla giustizia, ma anche alla speranza. Dopo decenni di governi autoritari, che hanno visto al potere figure come generale Lansana Conté, Moussa Dadis Camara e Alpha Condé, la caduta di quest’ultimo nel 2021 aveva generato un diffuso ottimismo. La promessa di una transizione pacifica, inclusiva e democratica era stata accolta con favore dalla società civile, dalle organizzazioni internazionali e da gran parte della popolazione. Tuttavia, in tre anni, Doumbouya ha mostrato una preoccupante tendenza alla centralizzazione del potere, alla soppressione delle voci critiche e a una gestione opaca e autoritaria dello Stato.

La progressiva diffusione di pratiche come morti sospette, arresti arbitrari, detenzioni extragiudiziali e processi farsa segna una trasformazione preoccupante nel modo in cui il potere viene esercitato. In Guinea, questi episodi non sono più eccezioni, ma stanno assumendo la forma di un vero e proprio modello di governo, basato sulla paura e sul controllo autoritario. Le circostanze oscure della morte del generale Sadiba Koulibaly e del colonnello Pépé Célestin Bilivogui sono esempi emblematici della mancanza di trasparenza che caratterizza le istituzioni: non si tratta solo di eventi tragici, ma di segnali allarmanti di un sistema che sfugge deliberatamente a qualsiasi richiesta di verità e giustizia.
A rendere ancora più grave la situazione sono le sparizioni forzate di figure di spicco dell’attivismo e del giornalismo indipendente, come Foninké Mengué, Billo Bah e Habib Marouane Camara. Questi episodi evocano metodi tipici dei regimi militari più repressivi e mettono in discussione la possibilità stessa di esprimere opinioni divergenti senza rischiare la libertà o la vita. Il caso del processo contro Aliou Bah, leader dell’opposizione e presidente del partito MoDel, ne è un esempio lampante: un procedimento percepito da molti osservatori internazionali come profondamente lacunoso, privo di imparzialità e intriso di finalità politiche. In questo contesto, lo Stato di diritto non è più un principio regolatore, ma assume le vesti di un guscio vuoto. L’apparato repressivo, che si sperava superato, è stato sistematicamente riattivato, colpendo indiscriminatamente chiunque si opponga al potere costituito. La popolazione civile, privata di garanzie e strumenti di protezione, rimane esposta a un crescente arbitrio. La deriva autoritaria non è più un rischio futuro, ma una realtà già in atto.
Da oltre tre anni, diversi ex membri del governo dell’ex presidente Alpha Condé sono detenuti in un carcere senza un processo con accuse di corruzione e appropriazione indebita di fondi pubblici. Questi detenuti, costretti a sopravvivere in condizioni precarie, non ricevono alcun trattamento favorevole, suscitando preoccupazioni sulla legalità e sull’equità del trattamento a loro riservato. Il caso solleva interrogativi su quanto siano compatibili le attuali pratiche giuridiche con i principi di giustizia e diritti umani.

Nel frattempo, la giunta militare guidata dal colonnello Mamadi Doumbouya, che aveva promesso un netto distacco dalle politiche del passato, sembra replicare, se non amplificare, alcuni dei comportamenti che aveva precedentemente criticato. La corruzione, invece di essere eliminata, sembra essersi semplicemente adattata ai nuovi equilibri di potere, contribuendo a un sistema che appare sempre più opaco e autoritario. La retorica del “rinnovamento” e i simboli del cambiamento non sono più sufficienti a mascherare la continuità con le pratiche autoritarie del passato.
Nonostante la figura di Doumbouya venga presentata come quella di un leader moderno, le sue azioni sembrano minare i fondamenti dello Stato di diritto, suscitando un crescente scetticismo tra la popolazione. Tuttavia, la Guinea non è un Paese privo di coscienza civica. Le popolazioni, in particolare quelle della regione forestale come N’Zérékoré, sono storicamente conosciute per il loro forte senso della giustizia, l’attaccamento alla parola data e la dignità collettiva. Queste comunità, difficili da manipolare con concessioni simboliche, potrebbero reagire in modo imprevedibile a gesti opportunistici come l’indulto a Moussa Dadis Camara, mettendo ulteriormente a rischio la già fragile legittimità dell’attuale regime.
La vera speranza è quindi nella società civile, nei giovani che continuano a chiedere democrazia, nei giornalisti coraggiosi, nelle madri delle vittime del 28 settembre che non hanno mai smesso di chiedere verità. In un Paese dove l’ingiustizia sembra essere diventata sistemica, ogni atto di resistenza è un atto rivoluzionario.
La Guinea non è ancora domata. La grazia concessa a Dadis Camara è molto più di un errore politico. È il simbolo di una deriva, la prova tangibile che la transizione guineana è stata dirottata da logiche autoritarie e opportunistiche. È la conferma che Mamadi Doumbouya non è l’artefice del cambiamento, ma il continuatore, seppur in vesti nuove, di un modello di potere personalistico, clientelare e repressivo.
In un contesto profondamente segnato dal dolore e dalla memoria collettiva, la strumentalizzazione della giustizia a fini politici non è solo un atto di manipolazione istituzionale, ma un’ulteriore ferita inferta a una società già provata. Quando il potere si appropria del linguaggio della giustizia per mascherare pratiche di ingiustizia, si verifica una profonda perversione del diritto: la legge perde la sua funzione di garanzia e diventa un’arma di repressione. La Guinea si trova a un bivio storico: continuare sulla strada dell’autoritarismo, consolidando un potere che si nasconde dietro processi giudiziari fittizi, oppure dare una svolta radicale, basata sulla trasparenza, sulla legalità autentica e sull’ascolto delle richieste popolari. La scelta non è solo politica, ma etica: riguarda il modello di società che si vuole costruire. Un sistema in cui la giustizia sia davvero indipendente è l’unica base solida per la riconciliazione e un futuro condiviso. Il cambiamento è possibile, ma richiede coraggio di rompere con il passato, di riconoscere gli errori, di restituire dignità a una cittadinanza tradita. Il tempo per agire, tuttavia, è limitato: ogni giorno in più in cui la giustizia rimane ostaggio del potere è un giorno perso per la democrazia.