di Stefano Pancera
Si è svolto questa mattina sabato 17 maggio al Teatro Comunale di Gallarate, in provincia di Varese, il Remigration Summit 2025. L’evento non è stato una riunione tra sigle partitiche, ma piuttosto un raduno di attivisti, influencer emergenti, blogger, podcaster e figure politiche della estrema destra europea. Tutti legati, da una stessa visione: i migranti non si integrano e vanno mandati via, anche con la forza.
“Remigrazione” è un neologismo che l’enciclopedia Treccani definisce: “eufemismo per il ritorno forzato di persone immigrate nel loro Paese d’origine “. Non è una parola sbucata da qualche slogan elettorale o da un meme virale. È, in realtà, l’ultima versione di un concetto che ha attraversato decenni di elaborazioni teoriche e travestimenti semantici.
Nelle ultime settimane, il termine è riesploso nel dibattito italiano in occasione del “Remigration Summit 2025” prima annunciato – poi congelato – e alla fine celebrato questa mattina sabato 17 maggio al Teatro Comunale di Gallarate, in provincia di Varese.
Un raduno privato a pagamento con biglietti di ingresso (sold out) che andavano dai 40 ai 250 € per l’accesso VIP. L’evento non è stato una riunione tra sigle partitiche, ma piuttosto un raduno di attivisti, influencer emergenti, blogger, podcaster e figure politiche della estrema destra europea. Tutti legati, da una stessa visione: i migranti non si integrano e vanno mandati via, anche con la forza.
Alla domanda: che differenza c’è tra deportazione e remigrazione? La risposta data in un post sul profilo instagram degli organizzatori è emblematica: “la deportazione è l’atto fisico di rispedire qualcuno, che non è cittadino, nel suo paese di origine. La remigrazione è il movimento culturale, la mentalità e l’insieme di strumenti politici che rendono possibile la deportazione”.
Un’ossessione che ha radici lontane. Remigrazione – nella nuova accezione che gli vuole dare l’estrema destra – non significa “rimpatrio volontario” né “rimpatrio forzato dei clandestini” ma indica invece, l’allontanamento tramite il reimpatrio forzato di persone straniere o percepite come tali, anche se nate e cresciute e nei Paesi europei.
E così oggi, in pieno 2025, ci si ritrova a fare i conti con vecchie paure travestite da nuovi concetti. Non si parla più di razze superiori, ma di “separazione delle culture” che in pratica significa difendere un’identità etnoculturale immaginaria.
“C’è confusione e si sono fatte speculazioni, ma il nostro intento è dare un contributo al dibattito attorno a questa parola. Per questo abbiamo scelto di organizzare un summit con relatori qualificati per arrivare a una definizione politica. Un passo avanti: aprire un dibattito democratico per comprendere, definire e applicare la remigrazione nella sfera politica. Di fatto, a nostro avviso, è la risposta al fallimento del multiculturalismo” ha spiegato al Corriere della Sera Andrea Ballarati, 23 anni, una delle colonne italiane dell’organizzazione del Remigration Summit 2025.
Raccontata così, nell’ambito di un sedicente “dibattito democratico”, sembra quasi una disquisizione accademica se non fosse che un termine apparentemente neutro, preso in prestito dalle scienze sociali, è diventato da tempo un’arma ideologica. Il trucco sta nel linguaggio: anziché usare parole cariche di odio o insulti etnici, si parla di incompatibilità culturali, di ordine naturale, di equilibri da preservare di fallimento del multiculturalismo.
E qui entra in gioco anche l’Africa. Perché non è un caso che il fantomatico “stato-modello” in cui deportare milioni di migranti venga immaginato in Africa . Non importa dove, né con quale coinvolgimento dei Paesi africani. L’importante è che sia lontano, che serva da discarica etnica per l’Europa. Una visione coloniale aggiornata, in cui il continente africano non è soggetto politico, ma spazio da occupare.
E non è nemmeno un caso se, dopo il discusso tentativo del governo britannico nel 2022 di deportare migliaia di richiedenti asilo verso il Rwanda — progetto poi bloccato grazie al nuovo primo ministro Keir Starmer — Kigali torni oggi al centro di questo argomento.
Stavolta, però, è il governo degli Stati Uniti a trattare con Paul Kagame per un accordo simile: ospitare sul proprio territorio migranti irregolari espulsi dagli USA. L’operazione, che ricalca in parte il modello britannico fallito, solleva ancora una volta interrogativi etici e politici sul ruolo del Rwanda come “Paese terzo sicuro” e sull’esternalizzazione della gestione migratoria da parte delle potenze occidentali.
Donald Trump d’altronde aveva affrontato il tema già durante la campagna per le presidenziali statunitensi. “Da presidente metterò subito fine all’invasione di migranti in America e rimanderò a casa i clandestini in quella che viene chiamata remigrazione”. Scrisse il 23 settembre dello scorso anno sul suo social Truth, la piattaforma che vorrebbe essere X, ma con meno censure e più maiuscole.

Ma è nel cuore dell’Europa che ha preso forma la teoria della “Grande Sostituzione”, formulata dallo scrittore francese Renaud Camus nel 2011. Nel suo libro “Le Grand Remplacement” Camus mette in guardia i francesi da quella che descrive come una minaccia esistenziale: secondo lui, le popolazioni europee, bianche e cristiane, starebbero per essere deliberatamente rimpiazzate da masse di immigrati, soprattutto provenienti dall’Africa e dal Maghreb, in prevalenza musulmani.
Un’idea che richiama da vicino le parole di Oriana Fallaci, quando parlava di un’“invasione islamica dell’Europa” e accusava l’Occidente di essersi arreso culturalmente all’Islam, arrivando a sostenere che “l’Europa è diventata Eurabia”.
Negli anni ’90, in Francia, “remigrazione” entrò nel vocabolario della Nouvelle Droite come termine tecnico per “ripulire” l’Europa da chi non ne incarnava l’identità culturale. Il pensiero di Alain de Benoist e Guillaume Faye forniva le basi ideologiche: etnopluralismo, rifiuto del multiculturalismo, difesa dell’“identità” attraverso la separazione etnica.
Eppure nel suo significato originale, “remigrazione” indicava semplicemente un emigrato che sceglie di tornare a casa, nel proprio Paese d’origine. Magari dopo anni trascorsi all’estero, con il desiderio di riabbracciare la famiglia, investire i risparmi, ricominciare da dove tutto era iniziato. Una scelta libera, personale, volontaria. La migrazione di ritorno dei turchi dalla Germania verso la Turchia è stato uno degli esempi più studiati. La maggior parte dei lavoratori turchi che emigrarono in Germania negli anni ’60 inizialmente intendeva restare solo temporaneamente per guadagnare soldi da investire in una nuova vita in Turchia.
Oggi il volume delle rimesse che le persone immigrate inviano alle famiglie d’origine dall’Italia è di 8,3 miliardi di euro. Se si aggiunge quello non tracciabile e quello dei vari money transfer il volume totale delle rimesse si stima oscilli tra i 9,5 e i 12 miliardi.
Il Remigration Summit di Varese, ci ha ricordato quello che spesso si annida sottilmente in certi titoli dei giornali, nei post virali, nei meme apparentemente scherzosi: ovvero che basta infilarsi nel vocabolario quotidiano, spostare il senso comune, ridurre le resistenze, per trasformare un’idea aberrante in un argomento di possibile dibattito.
Quando si inizia a distinguere tra chi “appartiene” e chi “non appartiene” il passaggio tra “linguaggio” e “violenza” diventa sempre più breve. Oggi, l’odio non urla. Bisbiglia.