In virtù delle violenze degli ultimi giorni, delle “colpe gravi” della Monusco, come le ha definite la stessa Onu, e del malcontento popolare nei confronti dei caschi blu il governo di Kinshasa ha deciso di “rivalutare”, con la Monusco, un piano per il suo ritiro dal territorio congolese.
Sono di nazionalità tanzaniana i peacekeeper delle Nazioni unite della missione Monusco, di ritorno da un congedo, che domenica hanno aperto il fuoco al posto di frontiera di Kasindi, al confine tra Repubblica democratica del Congo (Rdc) e Uganda, uccidendo tre persone e ferendone 15. In totale, da quando sono iniziate le proteste contro la missione Onu in Rdc, i morti tra i manifestanti sono stati almeno 36, 170 i feriti, secondo i dati diffusi ieri sera dal governo di Kinshasa.
Il bilancio precedente riferiva di 18 morti: secondo gli aggiornamenti del governo congolese sono 13 i morti a Goma, 13 i morti a Butembo, tra cui 4 forze di pace, 4 morti a Uvira, 3 morti a Kanyabayonga e 3 morti a Kasindi.
Lunedì il presidente congolese Felix Tshisekedi ha avuto una conversazione telefonica con il segretario generale delle Nazioni unite Antonio Guterres, al quale ha espresso la sua “totale disapprovazione per il comportamento delle forze di pace, alla radice di questi incidenti” e manifestato la necessità di garantire che i colpevoli siano puniti “severamente”. Il presidente congolese ha anche ricordato al capo dell’Onu che il ritiro dei ribelli M23 da tutte le località attualmente occupate nella provincia del Nord Kivu “è una condizione necessaria per la riduzione delle tensioni”.
Presente nel Paese da 23 anni, Monusco sta affrontando da 3 anni una crescente ostilità da parte della popolazione, che la accusa di inefficienza nella missione di protezione dei civili e di contrasto ai gruppi armati locali e stranieri attivi nell’est della Rdc.
Monusco è una delle missioni Onu più grandi e costose al mondo: con più di 16.000 caschi blu, vanta un budget annuale di circa un miliardo di dollari.