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Edizione del 07/06/2025

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yahya jammeh

    Jammeh
    FOCUS

    «Io gambiano, ecco come sono fuggito alle torture di Jammeh»

    di Enrico Casale 7 Dicembre 2016
    Scritto da Enrico Casale
    Sostenitrici di Jammeh

    Sostenitrici di Jammeh


    Raúl Zecca Castel *

    Per ventidue lunghi anni, la Repubblica islamica del Gambia ha vissuto sotto la morsa di un feroce regime militare guidato da Yahya Jammeh, tra i dittatori più sanguinari e liberticidi del mondo. Le elezioni del 1° dicembre, tuttavia, hanno segnato un momento epocale nella storia di questo piccolo fazzoletto di terra dell’Africa occidentale incuneato nel Senegal, con meno di due milioni di abitanti. Il capo dell’opposizione, Adama Barrow, leader di un fronte democratico riunito nello United Democratic Party, ha vinto a sorpresa per soli 50mila voti di differenza e ora si delinea un nuovo corso per il futuro di un Paese che per anni è stato segnato da continue denunce di persecuzioni politiche, religiose, etniche e omofobe. Migliaia di persone, sono fuggite dalla dittatura alla disperata ricerca di riparo e salvezza: un vero esodo di massa che ha trovato in Italia il suo approdo principale. Tra queste migranti, anche M.S., un ragazzo ospite di un centro di accoglienza per richiedenti asilo nel milanese, che ha accettato di raccontarci la sua storia a condizione che mantenessimo l’anonimato per la sua sicurezza.

    Che cosa pensa di queste elezioni e crede che potrà cambiare la situazione che ha caratterizzato il Gambia in questi ultimi anni?
    Sono felicissimo del risultato, non posso crederci! La verità è che non avevo alcuna fiducia nella possibilità che Jammeh accettasse la sconfitta, ma così è stato. È un giorno di festa per tutti i gambiani. Ora le cose cominceranno ad andare meglio, perché la situazione politica in Gambia era davvero pessima: la gente non aveva pace, nessuno poteva parlare e dire ciò che pensava, perché non avevamo democrazia. Eravamo tutti disperati per colpa Jammeh. Lui poteva fare tutto ciò che voleva. Dal 1994 vivevamo con la dittatura militare. Il nostro popolo stava soffrendo da troppo tempo e tutti coloro che ne hanno avuto la possibilità sono scappati.

    Mercato a Banjul, capitale del Gambia

    Mercato a Banjul, capitale del Gambia

    Quali sono i motivi per cui le persone volevano lasciare il proprio Paese?
    Le persone scappavano perché avevano paura di essere arrestate e sbattute in prigione. È successo a molti, senza aver fatto nulla! Qualcuno ti accusava, venivi arrestato e poi non c’era più niente da fare. Molte persone sono state denunciate in modo anonimo, accusate di essere dissidenti, omosessuali o cattivi musulmani. Nessun avvocato poteva salvarti. Non avevamo una vera giustizia o veri processi: era il regime a decidere che cosa è giusto e cosa è sbagliato.

    Esistevano movimenti di protesta?
    In Gambia chi reclamava per i propri diritti veniva assassinato o, se era fortunato, incarcerato per il resto della vita. Tutto il mondo aveva capito che Jammeh stava ammazzando i suoi cittadini come polli. Lo sapevano tutti, ma non lo diceva nessuno. Tutti i giornalisti erano al servizio del regime, perché avevano paura di dare notizie scomode. Sapevano benissimo che se lo avessero fatto sarebbero scomparse nel nulla.

    Chi erano i responsabili delle sparizioni?
    L’esercito era il braccio armato del Presidente, come è normale in tutti i regimi dittatoriali, ma quello che forse non tutti sanno è che esisteva un corpo speciale di forze armate direttamente agli ordini del Presidente deputato a svolgere i lavori più sporchi. I suoi membri erano noti come i «Jungullars» e, di fatto, erano i boia personali del Presidente, un vero squadrone della morte. Molte persone sono state sequestrate, torturate e fatte sparire dai «Jungullars».

    Militari gambiani

    Militari gambiani

    Ci racconta la sua storia? Perché ha dovuto lasciare il suo Paese?
    La verità è che io avevo una bella vita in Gambia. Non mi mancava nulla. Ho potuto studiare e permettermi molte cose. E questo solo perché ero parente di un militare di alto rango al servizio del Presidente. Dunque tutti mi conoscevano e mi rispettavano. Ma per lo stesso motivo un giorno ho dovuto lasciare il Paese. È accaduto nel 2006. Era notte, stavo dormendo in casa con la mia famiglia quando, improvvisamente, hanno fatto irruzione alcuni ufficiali armati. Volevano sapere dove fosse questo mio parente, esigevano risposte, ma la verità è che nessuno di noi ne aveva idea. Ci hanno detto che stava per prendere parte a una rivolta contro il Presidente, un colpo di stato, e se non lo avessimo denunciato saremmo finiti nei guai.

    E poi che cos’è accaduto?
    Non potevo dar loro le informazioni che cercavano, semplicemente perché non sapevo nulla, non sapevo che era un ribelle. Ma non mi hanno creduto e così è iniziata la disgrazia della mia famiglia. Ci hanno tenuti sequestrati in casa per giorni, torturandoci ripetutamente. Ci hanno picchiati con calci e pugni su ogni parte del corpo, colpendoci con i fucili, e poi hanno violentato le donne. Io ero l’unico uomo adulto, così hanno infierito su di me, versandomi dell’acido sulle mani e con le scariche elettriche. Svenivo spesso. Ho ancora i segni sul corpo…

    Come ha fatto a salvarsi?
    Come dicevo, tutti mi conoscevano, soprattutto i militari e gli ufficiali, anche quelli che mi torturavano. Uno di loro, per fortuna, mi ha aiutato a scappare durante il suo turno di guardia. Mi voleva bene e sapeva che non c’entravo nulla con il tentativo di colpo di stato. Dopodiché hanno rilasciato la mia famiglia, che si è trasferita altrove. Non posso dire dove. Io sono riuscito a scappare in Senegal. Ho vissuto lì per qualche tempo, ma non mi sentivo al sicuro. Mi arrivavano continuamente notizie di arresti e sparizioni di coloro che avevano partecipato o sostenuto la rivolta contro Jammeh e temevo che qualcuno potesse riconoscermi. È così che ho deciso di lasciare anche il Senegal e di iniziare il viaggio che mi ha portato in Italia.

    È partito dalla Libia con un barcone?
    Sì, è stato un altro inferno. Ho attraversato il deserto e sono arrivato in Libia. In quel Paese non c’è legge, non c’è Governo. Persino i bambini girano armati. Stavo lavorando da qualche settimana senza essere pagato e quando ho chiesto i miei soldi, il capo mi ha investito con la sua jeep. Voleva uccidermi. Non riuscivo più a muovermi, non sentivo le gambe, ma non potevo andare in ospedale. Sono rimasto immobile quasi due mesi, curandomi con rimedi tradizionali, pensavo di morire. Appena ho avuto le forze mi sono imbarcato e ho attraversato il mare.

    Migranti in arrivo a Lampedusa

    Migranti in arrivo a Lampedusa

    Come si sente ora? È in contatto con la tua famiglia?
    Ora sto abbastanza bene. In Italia mi hanno curato, ma dovrò prendere alcune medicine per tutta la vita. La cosa che più mi spaventa sono i pensieri. Non potrò mai dimenticare quello che mi hanno fatto. A volte è difficile dormire. Anche perché sono in pensiero per i miei familiari. Potevo parlare con loro, ma le conversazioni dovevano essere brevi, perché avevano i telefoni sotto controllo. Ci sentivamo solo per sapere se stiamo bene. Dal giorno precedente le elezioni non li ho ancora sentiti, perché Jammeh ha interrotto tutti i servizi di comunicazione. Non vedo l’ora di poter festeggiare insieme a loro.

    Come vede il suo futuro e il futuro del Gambia?
    Non lo so. Mi hanno dato un permesso di soggiorno per motivi umanitari, ma ho fatto ricorso perché ritengo di avere diritto all’asilo politico. Voglio essere riconosciuto come un rifugiato e avere la protezione internazionale. La mia vita è distrutta, completamente distrutta. Non so quale futuro mi aspetta qui. Mi manca molto il mio Paese, è un Paese bellissimo e vorrei tornarci. Ora che Jammeh è caduto potrò farlo, ma prima ho bisogno di sapere che davvero non c’è più nessun pericolo. Questi momenti sono molto confusi, e anche pericolosi. Bisogna avere pazienza e sperare che il nuovo presidente sia in grado di sollevare il paese e mantenga le sue promesse democratiche. Ho molta speranza…

    * Dottorando in Antropologia culturale e sociale presso l’Università di Milano-Bicocca, ha lavorato a stretto contatto con i richiedenti asilo e i rifugiati del progetto Sprar di Milano ed è autore del saggio «Come schiavi in libertà. Vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana» (Arcoiris, Salerno, 2015).

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